Il mio nome è Jan. Sono un cittadino polacco e ho 41 anni. Dal 2005 sono detenuto nel carcere di Civitavecchia. Tra poco finirò di scontare la mia pena e sarò un uomo libero. Una libertà che per me avrà un sapore amaro. Infatti il 14 marzo mio figlio Gregori è morto in un incidente stradale.
E’ stato investito a Santa Marinella, località balneare vicinissima al carcere di Civitavecchia, mentre tornava dal lavoro. Gregori aveva solo 20 anni. Il fatto è che dell’incidente di mio figlio, anche se avvenuto a pochi chilometri da dove sono detenuto, nessuno mi ha detto nulla.
Nessuno del carcere di Civitavecchia mi ha avvisato che quel 14 marzo mio figlio era ricoverato in fin di vita in ospedale, che era stato operato, ma che non aveva superato l’intervento. Non un educatore, non un dirigente del carcere mi ha informato.
Eppure la legge, o meglio l’art. 29 dell’ordinamento penitenziario, prevede che al detenuto sia dato tempestivo avviso del decesso o di una grave malattia di un prossimo parente.
Ed invece io, in barba alla legge e a quel minimo senso di umanità, ho saputo della morte di mio figlio ben undici giorni dopo.
Ma non solo. Il ritardo con cui mi è stata data la notizia della morte di mio figlio mi ha di fatto impedito di chiedere un permesso per andare ai suoi funerali. Insomma, io detenuto mi sono trovato a fare i conti non solo con la notizia di un figlio morto 11 giorni prima, ma anche con l’impossibilità di essere presente al suo funerale.
Il 25 marzo i miei fratelli, che abitano all’estero, mi sono venuti a trovare in carcere. E’ stato allora che ho saputo di mio figlio. Durante quel terribile colloquio mi hanno detto dell’incidente, di come è morto mio figlio e della decisione, da me condivisa, che fossero donati i suoi organi.
Il giorno successivo la direzione del carcere di Civitavecchia mi ha fatto compilare un modulo per essere autorizzato dal magistrato di sorveglianza a visitare la tomba di mio figlio.
Il 3 aprile, il magistrato mi ha concesso il permesso e così mi hanno messo dentro a un furgone della polizia penitenziaria. Lì, chiuso in una gabbietta e ammanetato, mi hanno trasportato nel cimitero di Roma a Prima Porta.
Arrivati al cimitero, mi hanno tolto le manette e mi hanno portato sulla tomba di mio figlio. C’ero io, vestito come un barbone e senza neanche un fiore, cinque agenti e un impiegato del cimitero. Difficile descrivere come mi sono sentito in quel momento.
Tornato nel carcere di Civitavecchia, il medico mi ha prescritto dei tranquillanti. Tranquillanti che, a dire del medico, potevo prendere in infermeria quando mi sentivo agitato.
Dopo pochi giorni, il dolore per la morte di mio figlio si è fatto ancora più insopportabile e sentivo che per la disperazione stavo perdendo la lucidità. Così ho chiesto all’agente, che era in sevizio, di potermi far uscire dalla cella per andare in infermeria e prendere i tranquillanti. Ma quell’agente, con tono arrogante, mi ha detto che non potevo andare in infermeria perchè non ero nell’elenco di chi poteva assumere degli psicofarmaci.
Io ho provato a spiegargli la situazione che stavo vivendo. Gli ho anche suggerito di chiamare il medico per avere una conferma, ma è stato inutile. Quell’agente ad ogni mi parola diventava sempre più arrogante, tanto che ad un certo punto mi ha detto: “Ma chi comanda qui? Tu? Ma tu non sei nessuno! Hai capito? Ne-ssu-no!”.
Morale, sono rimasto in cella con la mia disperazione e con un pensiero che si faceva sempre più insistente nella mia mente. Forse quell’agente aveva ragione. Io non ero nessuno. Infondo i fatti parlavano chiari. Io sono solo un detenuto, uno senza diritti. Neanche quello di sapere che suo figlio è morto. Sono solo un detenuto, che non ha diritto neanche di andare al funerale di suo figlio. Io non sono nessuno.
E’ stato investito a Santa Marinella, località balneare vicinissima al carcere di Civitavecchia, mentre tornava dal lavoro. Gregori aveva solo 20 anni. Il fatto è che dell’incidente di mio figlio, anche se avvenuto a pochi chilometri da dove sono detenuto, nessuno mi ha detto nulla.
Nessuno del carcere di Civitavecchia mi ha avvisato che quel 14 marzo mio figlio era ricoverato in fin di vita in ospedale, che era stato operato, ma che non aveva superato l’intervento. Non un educatore, non un dirigente del carcere mi ha informato.
Eppure la legge, o meglio l’art. 29 dell’ordinamento penitenziario, prevede che al detenuto sia dato tempestivo avviso del decesso o di una grave malattia di un prossimo parente.
Ed invece io, in barba alla legge e a quel minimo senso di umanità, ho saputo della morte di mio figlio ben undici giorni dopo.
Ma non solo. Il ritardo con cui mi è stata data la notizia della morte di mio figlio mi ha di fatto impedito di chiedere un permesso per andare ai suoi funerali. Insomma, io detenuto mi sono trovato a fare i conti non solo con la notizia di un figlio morto 11 giorni prima, ma anche con l’impossibilità di essere presente al suo funerale.
Il 25 marzo i miei fratelli, che abitano all’estero, mi sono venuti a trovare in carcere. E’ stato allora che ho saputo di mio figlio. Durante quel terribile colloquio mi hanno detto dell’incidente, di come è morto mio figlio e della decisione, da me condivisa, che fossero donati i suoi organi.
Il giorno successivo la direzione del carcere di Civitavecchia mi ha fatto compilare un modulo per essere autorizzato dal magistrato di sorveglianza a visitare la tomba di mio figlio.
Il 3 aprile, il magistrato mi ha concesso il permesso e così mi hanno messo dentro a un furgone della polizia penitenziaria. Lì, chiuso in una gabbietta e ammanetato, mi hanno trasportato nel cimitero di Roma a Prima Porta.
Arrivati al cimitero, mi hanno tolto le manette e mi hanno portato sulla tomba di mio figlio. C’ero io, vestito come un barbone e senza neanche un fiore, cinque agenti e un impiegato del cimitero. Difficile descrivere come mi sono sentito in quel momento.
Tornato nel carcere di Civitavecchia, il medico mi ha prescritto dei tranquillanti. Tranquillanti che, a dire del medico, potevo prendere in infermeria quando mi sentivo agitato.
Dopo pochi giorni, il dolore per la morte di mio figlio si è fatto ancora più insopportabile e sentivo che per la disperazione stavo perdendo la lucidità. Così ho chiesto all’agente, che era in sevizio, di potermi far uscire dalla cella per andare in infermeria e prendere i tranquillanti. Ma quell’agente, con tono arrogante, mi ha detto che non potevo andare in infermeria perchè non ero nell’elenco di chi poteva assumere degli psicofarmaci.
Io ho provato a spiegargli la situazione che stavo vivendo. Gli ho anche suggerito di chiamare il medico per avere una conferma, ma è stato inutile. Quell’agente ad ogni mi parola diventava sempre più arrogante, tanto che ad un certo punto mi ha detto: “Ma chi comanda qui? Tu? Ma tu non sei nessuno! Hai capito? Ne-ssu-no!”.
Morale, sono rimasto in cella con la mia disperazione e con un pensiero che si faceva sempre più insistente nella mia mente. Forse quell’agente aveva ragione. Io non ero nessuno. Infondo i fatti parlavano chiari. Io sono solo un detenuto, uno senza diritti. Neanche quello di sapere che suo figlio è morto. Sono solo un detenuto, che non ha diritto neanche di andare al funerale di suo figlio. Io non sono nessuno.
é allucinante. Sentire una storia del genere fa gelare il,sangue. Non riesco a pensare che in un paese come il nostro dove si parla tanto di diritti, di umanità, avvengano episodi del genere. Mi sento in colpa verso quest'uomo, come cittadina italiana e come studentessa di legge, una legge che a questo punto mi chiedo a che serva, se non siamo neanche capaci di applicarla. Chiedo scusa a quest'uomo, io, da parte dell'italia intera, da parte delle istituzioni, da parte di tutte le persone che ti hanno negato un diritto naturale e sacrosanto, il diritto di essere padre per l'ultima volta.
RispondiEliminaanche to o due figlii in carcere purtroppo e capisco il dolore che ai .anche i miei figli anno avuto una brutta notizia del papà e neanche loro anno portati ai funerali .
RispondiEliminaLuca
RispondiEliminaMi associo al terribile dolore di quest'uomo e alla perdita del proprio figlio. Credo che la pena che stia scontando stia superando ogni misura per le condizioni estremamente dure che gli vengono inflitte.
Anch'io come cittadino, come rossella, non posso fare altro umilmente che domandargli scusa per altri italiani. Che la Madonna sia sempre a suo finaco!
suca uomo
RispondiEliminaE vergognoso non ho parole la legge in italia non funziona bene e poi il detenuto aveva il diritto di fargli sapere della morte di suo figlio
RispondiEliminaE vergognoso non ho parole la legge in italia non funziona bene e poi il detenuto aveva il diritto di fargli sapere della morte di suo figlio
RispondiEliminaSignor Jan, Le scrivo queste parole dalla Polonia. Ho letto l'articolo sulla morte del suo figlio e mi unisco al Suo dolore. La prego di contattarmi. Penso di poter aiutarLa. Le lascio il mio e-mail: verbum@lex-kancelaria.pl
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